Dunkirk è un film complesso e costruito per destabilizzare, è dunque davvero possibile parlarne al di là di ogni semplificazione?
Fa ridere parlare di un qualcosa che rifugge la parole. Dovremmo dare silenzio, o forse il frastuono più fastidioso che ci sia, per esprimere la realtà di “Dunkirk”. Eppure, staremmo qui a “leggere” pagine e pagine di fogli bianchi e suoni registrati per capire, molto presto, che qualche cosa bisognerà pur dirla, e dirla in fretta. È da qui che nasce l’inflazione di un preciso termine: “Capolavoro”. Dalla semplificazione dello straordinario. Dallo stereotipo di un qualcosa che fatichiamo a cogliere e che, pur amandone la particolarità, cerchiamo di perimetrare in strutture che schiacciano il senso di un’opera che è splendido non capire.
“Dunkirk” è difatti la frustrazione di essere spettatori di uno spettacolo che non è tale, di un teatro senza sedie e di una storia senza eroi: la guerra. Strano è però entrare in un’ottica di vacuità e di legarla ad un genere, i “film di guerra”, la cui fortuna è sempre stata la pienezza narrativa. Storie imponenti, didascaliche, che mostravano, ma soprattutto descrivevano, epici eventi di parole, orgoglio e coraggio. La guerra è onore, ci urlavano in quei frames dagli slogan stampati, la guerra è purità e dolore, proiettavano in un Cinema-manifesto su cui le parole si stendavano dalla patria sino al soldato. Ma qui no, qui non c’è spazio per le urla, qui non c’è spazio per la storia; qui c’è l’uomo, senza nome, e la guerra, senza volto.
L’inizio di questo lungo ed intricato viaggio è un fatto puramente storico, la sconfitta ed il salvataggio di 400.000 uomini presso Dunkerque. In questo piccolo, seppur nuovo, espediente narrativo appaiono semplicemente tre differenti punti di vista e, soprattutto, tre differenti tempi del racconto. La settimana, il giorno, L’ora. La terra, il mare, l’aria. Tre ordinate sezioni stravolte nel ricercato tentativo di far perdere la concezione di ciò che di umano ed artificiale esiste, e di ciò che nella guerra perde senso; il tempo. L’ora vola così nei cieli sopra Dunkerque al suono di un frastuono che accieca lo schermo portandoci a capire sino in fondo cosa significhi essere in un luogo in cui lo spettatore non esiste. Quelle immagini, infatti, non appaiono essere lì per noi, troppo fastidiose, lontane dall’ammiccare di eroi che perversano i nostri quotidiani schermi e che proprio qui appassiscono divenendo, così, dimenticabili. C’è Harry Styles, Tom Hardy, attori e bell’imbusti, ora dai volti coperti, dagli sguardi mai a favore di camera, che sembrano non sapere di noi, dell’opera, del racconto. Ed è effettivamente questa la base per un viaggio che si costruisce lontano dalle battute dell’uomo, quanto più nei suoi movimenti e suoni.
I soldati si ammassano lungo la spiaggia di Dunkerque, in un fare geometrico che spaventa e pare sezionare lo spazio in un’iniziale carrellata in avanti con cui ci muoviamo, seguiamo l’orizzonte infinito, e torniamo; con una calma estranea agli eventi.
Una partecipazione fuori dal comune, la nostra, che ci porta ad osservare ricercando un filo della storia che ben presto comprendiamo non esistere. L’espediente è il fatto, il salvataggio di Dunkerque, ma il vero protagonista è lei, la guerra. Ed è in questo che Nolan si distacca dai maestri per divenire parte di un Racconto nuovo, composto in un discorso filmico che a partire dal cinema, cioè dall’immagine in inesorabile movimento, narra la guerra e nulla di più. Non c’è Romanzo in tutto ciò, bensì un fare che si finge documentario mostrando con un occhio privo di orpelli narrativi il sapore, il rumore, il colore di una battaglia.
Sono molteplici le riprese che ci pongono come fantasmi, e mai spettatori. Ripetute visioni-impossibili dal retro degli Spitfire a tutta velocità, in fondo al mare e dentro la sabbia. Posizioni irraggiungibili per qualunque uomo non sia in guerra, ma fondanti per un cinema contemporaneo che qui sfrutta con intelligenza la propria innovazione.
Scopriamo dunque suoni che strillano alle orecchie, lasciandoci sordi, lasciandoci dimenticare quel “Sonoricamente corretto” che sacrifica spesso il cinema in nome dell’accomodamento di spettatori che non bisogna disturbare.
Ed è qui che si ripensa all’esplosione di sofismi, all’uso di termini quali “capolavoro”, “opera ultima” ed “irraggiungibile frammento di cinema”; una rosa di nomi che tentano di riconoscere a “Dunkirk” una presunta Perfezione che mai come qui appare assente.
Perché Dunkirk non è solo un’opera di carrellate e geometria, ma una dissacrante costruzione che abbatte ogni nostra abitudine, ogni nostra credenza sul modo di guardare al cinema, alla guerra, all’immagine. Un viaggio apparentemente anti-narrativo che scorda le parole e lascia lunghi monologhi alle note inesorabili di un Hans Zimmer che smette di essere musicista, e diviene cineasta. La sua musica racconta così a braccetto di immagini che si accalcano lasciando l’ansia aumentare di ticchettio in ticchettio, di volto in volto, di onda in onda, con un silenzio sinfonico che assorda divenendo talmente loquace da riportare in auge il muto.
Ma la verità è che l’errore è dietro l’angolo. Facile sarebbe credere che Christopher Nolan sia passato dalle 157 pagine di sceneggiatura di Interstellar alle 82 di Dunkirk decidendo di abbandonare il racconto, in favore di immagini e silenzi privi di contenuto. È infatti proprio in tale pensiero che si cela la distorsione dello spettatore contemporaneo; perché mai come qui l’immagine è senso e racconto, portando Christopher Nolan a ridurre parole, ma ad aumentare il contenuto e a firmare così il suo film più narrativo e profondo, in cui battute ed intrecci incontrano un racconto puramente visivo e, così, totalmente cinematografico.
Alla prossima, il vostro Paroliere Matto